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L’UROBORO : IL SERPENTE CHE SI MORDE LA CODA

L’UROBORO : IL SERPENTE CHE SI MORDE LA CODA
a cura di Giovanni Pelosini
 
Dalla legna accanto al camino sei serpenti uscirono sinuosi e cominciarono ad intrecciarsi misticamente attorcigliandosi in un complesso groviglio. La danza dei serpenti affascinava August che osservava in silenzio, immobile sulla sua poltrona davanti al fuoco.
Quell’apparizione lo aveva lasciato perplesso e incredulo, incerto se catalogarla come sogno o come realtà. La mente razionale di August lo aveva già portato ad abbandonare gli studi di architettura per dedicarsi con passione alla chimica, che, verso la metà del XIX secolo cominciava a strutturarsi come scienza moderna. Ora quella stessa mente logica lo invitava a dubitare dei propri sensi.
Lentamente un grosso rettile si pose davanti a lui e lo guardò fisso negli occhi.  August non ne ebbe paura; aveva trentasei anni ed era uno degli scienziati più brillanti della nascente nazione germanica. Si convinse che quella era una visione onirica e tranquillizzò la sua mente: semplicemente si era assopito davanti al camino come gli succedeva spesso quando era un po’ più stanco del solito, e quel grande serpente era sicuramente solo un sogno. Aveva dedicato gli ultimi sette anni della sua vita al comportamento chimico del carbonio, e questa ricerca era ormai giunta ad un punto cruciale; era normale che fosse stanco, forse anche un po’ stressato. L’atomo di carbonio lo stava ossessionando. August era certo che esso formasse sempre quattro legami nei composti organici, dando origine anche a lunghe catene di idrocarburi, ma la struttura molecolare di questi composti era ancora un mistero. In particolare la formula di struttura del benzene rappresentava un enigma sostanzialmente insolubile: sei atomi di carbonio e sei atomi di idrogeno legati fra loro; come poteva essere possibile se il carbonio fa quattro legami e l’idrogeno solo uno?
Mentre il cervello sinistro di August ancora era coinvolto in tali ragionamenti, il serpente si avvicinava lentamente a lui: il suo movimento lento ed ipnotico lo condusse inesorabilmente verso altri pensieri e, finalmente, lo scienziato abbandonò la sua razionalità e si affidò al suo emisfero destro. Infine, sopita la mente, i due emisferi cominciarono a lavorare insieme.

Il grande serpente iniziò a parlargli:
«Amico mio, non indugiare troppo su sentieri già percorsi: essi non ti porteranno da nessuna parte che già non conosci. Tu, che sei nato con il Sole nel segno della Vergine, sai meglio di altri quale sia l’importanza dei dettagli ed hai lavorato con attenzione e logica. Ma adesso devi abbandonare tutto questo: affidati all’intuizione, lasciati andare, non fare resistenza! Hai già misurato tutto ciò che poteva essere misurato. Ora è il momento di osservare senza giudicare, ora è il momento di ascoltare il linguaggio del sogno. Ciò che hai arbitrariamente diviso e classificato, ora ti si mostra nella sua reale essenza oggettiva. Abbandona i pregiudizi, le false progressioni del tempo e le false visioni dello spazio, tutti i tuoi dogmi e le superstizioni! Guardami!»
Il grande serpente tacque e si piegò su se stesso fino ad afferrarsi la coda con la bocca a formare un cerchio con il suo corpo: l’antico simbolo dell’uroboro. Poi scomparve.

Era una fredda sera del 1865: Friedrick August Kekulè Von Stradonitz si svegliò da quell’ipnotico torpore nella sua poltrona di fronte al camino. Si alzò e lavorò tutta la notte riempiendo fogli e fogli di formule chimiche. Al mattino aveva finalmente scoperto la formula di struttura del benzene: una molecola ciclica, molto simile a un serpente che si morde la coda.
Per venticinque anni non volle parlare del metodo di ricerca che lo aveva condotto a quella grande scoperta e tenne segreto il sogno rivelatore che aveva condotto lui alla soluzione del problema e la scienza moderna alla creazione delle basi della chimica organica. Forse, così facendo, volle alimentare una leggenda; forse già possedeva la soluzione dell’enigma, ma non riusciva a renderla fruibile dalla mente conscia e davvero il serpente lo aiutò nel sogno.

Di certo sappiamo che August Kekulè aveva incontrato il mitico Uroboro, il simbolo per eccellenza della filosofia ermetica, l’emblema della natura ciclica delle cose.
Il cerchio dell’eterno ritorno vive nell’uroboro, in esso ci sono contemporaneamente l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, l’Uno e il Tutto, come affermavano i saggi di Alessandria seguaci di Ermete Trismegisto: “En to Pan”.
Il principio alchemico della fine seguita inevitabilmente dall’inizio, la morte come premessa della rinascita, il ciclo delle acque che evaporano e si condensano incessantemente si esprimono con l’immagine simbolica del serpente che divora se stesso inghiottendo la propria coda.
L’uroboro è simbolo anche dello stesso scorrere ciclico del tempo, e dell’eterno presente, della consequenzialità delle stagioni e delle ere, dei cicli vitali. Il serpente è uno degli animali più emblematici della morte e della rinascita: il suo ritorno primaverile dopo il lungo letargo in cui era scomparso negli anfratti sotterranei, il suo mutar pelle per crescere, il suo veleno che può uccidere e guarire, la sua stessa forma fallica che richiama il principio della vita e la stessa Dea Madre, Signora degli animali, sono tutti simboli della Vita e della sua eterna presenza sul pianeta.
Una Vita che si rinnova e si adatta, che scorre con i tempi, che tutto permea, che, anche quando sembra soccombere, muta e rinasce.
L’uroboro è anche il simbolo delle due nature dell’uomo e della vita, delle cose e del mondo: quel dualismo che spesso si esprime con la dialettica, che talvolta si mostra come conflitto, che è strumento principe dell’attrazione e della riproduzione.
La fusione alchemica e mistica che anche gli Gnostici elessero a unione divina del principio maschile con quello femminile è ben più della semplice metafora della coincidenza degli opposti; è il misterioso Rebis degli alchimisti, l’androgino che anche l’antica iconografia indiana raffigura come essere divino, è lo stesso Tao che gli orientali immaginano come armonica commistione di polarità opposte.
Tutto ciò che si genera nel mondo trova origine e fine nelle cose del mondo: tutto si trasforma, niente si crea e niente si distrugge, come ebbe ad affermare un altro illustre padre della chimica moderna: Lavoisier.
E non si pensi all’alchimia sempre e soltanto come un’antenata della moderna chimica, magari meno nobile o più ammantata di mistero, giacché la prima non si occupa della Materia, ma piuttosto di ciò che va oltre, che Tutto spiega e comprende.

Ecco che l’Uroboro, ancora in età moderna, può prendere vita nei sogni e nelle visioni, esserci guida nelle scelte, essere strumento psichico di comunicazione sottile.
Come altri archetipi eterni, simboli di ciò che siamo, delle nostre origini, dei nostri destini, delle nostre divinità interiori, non invecchiano né passano di moda. Al più possono passare inosservati, per la colpevole disattenzione delle distratte ed immemori menti umane, perse nel vorticoso mondo delle effimere immagini che si reputano stoltamente reali.

Se l’uroboro si presenta a noi, prestiamogli attenzione. Non importa la modalità che usa per farlo: che ci appaia in sogno o che attiri la nostra attenzione anche con un’immagine, o un pensiero, o un semplice articolo come questo. Non è mai un caso.
È un segnale per la nostra coscienza; può indicarci la via migliore per raggiungere i nostri obiettivi, quali che siano.
August Kekulè scoprì così la formula di struttura del benzene perché questo era il suo desiderio più grande in quel momento, perché la sua anima voleva realizzare quel sogno.
Ogni essere umano ha sogni e bisogni diversi e personali, e sempre possiede gli strumenti per realizzare tutto, purché sappia interpretare i segnali che immancabilmente troverà sulla sua strada. Quando tali desideri saranno soddisfatti, allora gli stessi simboli parleranno ad altri livelli e si rivolgeranno direttamente alla coscienza individuale, ed un prossimo salto evolutivo umano sarà finalmente possibile.
 





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